Per metà sono vestiti, per l’altra metà è parlarne. Provate a citare anche un solo romanzo che non contenga la descrizione di un vestito. Prendiamo un esempio a caso, questo da Vicolo del mortaio di Nagib Mahfuz: “I suoi abiti erano miseri: un vestito di tela, un vecchio velo sbiadito e sandali con le suole consunte, ma si era avvolta nel velo in modo da far risaltare la figura slanciata, il sedere sporgente, il petto formoso, le gambe ben fatte”.

In letteratura descrivere come un personaggio sia vestito è una delle vie più brevi per introdurlo nella narrazione e presentarlo al lettore. Perché? Perché il vestito è la prima e più esaustiva epifania di una persona, sono le sue possibilità, le sue inclinazioni, il suo carattere, i suoi gusti, il suo status sociale, portati subito sopra la pelle: notoriamente, un vestito scopre più di quanto copra. Le fattezze e le proprietà di un corpo nudo sono comuni a tutti e date per tutti, senza scelta. Un corpo vestito è già in sé una presa di posizione, implica una certa intenzione di stare al mondo in un certo modo.

“Hai visto come si veste quella?”: è la premessa d’ogni pettegolezzo degno di questo nome, è la carica d’esplosivo che manda finalmente in frantumi la diga del contegno, riversando a valle milioni di metri cubi di illazioni, fantasie, dicerie, esagerazioni, onomatopee, esclamazioni. È dai vestiti che spesso cominciano i romanzi che scriviamo nella vita, con la vita. “Chi è quello?”, “Quello chi?”, “Quello vestito in giacca e cravatta!”, al che la tua amica lo individua subito in mezzo alla folla e allora comincia a spiegarti chi è e cosa fa e con chi si vede e bla bla bla, mentre per te rimane semplicemente il ragazzo in giacca e cravatta di cui continui ad attribuirti con orgoglio la scoperta. Del resto, è normale che sia così, perché quel che stai cercando intorno è solo un nuovo punto di partenza, l’ennesima prima volta, un incipit efficace che sia al tempo stesso superficiale e profondo: come un vestito in mezzo alla folla, per esempio.